2. IPOTESI PROGETTUALI PER L'OTTIMIZZAZIONE DELLA LOGISTICA NEI DISTRETTI
INDUSTRIALI DELLA PROVINCIA DI MANTOVA.
2.3. Il District Chain Management (DCM)
Un progetto di District Chain Management (district logistics) è principalmente un progetto di
politica industriale e non di economia o ingegneria dei trasporti.
La progettazione di infrastrutture logistiche (interporti, depositi, piattaforme logistiche, etc…) o di
trasporto (collegamenti stradali, raccordi ferroviari, passanti, tunnel, etc…) è solamente una
delle fasi, non necessariamente la principale, che devono contribuire alla realizzazione di una
politica per la logistica distrettuale.
Dal punto di vista del sistema di governance l’impostazione di una politica per i distretti deve
partire dall’assunto che non esistendo una "master mind" distrettuale, è necessario
accompagnare l’ordine spontaneo dell’agire distrettuale verso percorsi evolutivi di
apprendimento collettivo, attraverso i quali prospettare soluzioni magari parziali (e dunque
subottimali) ma coerenti con le logiche di funzionamento di un sistema organizzativo
complesso. Va inoltre aggiunta anche un’altra considerazione apparentemente banale: i distretti
industriali non sono tutti uguali.
Osservare che ogni distretto rappresenta una realtà unica e distinta significa riconoscere
l’esistenza di situazioni organizzative e imprenditoriali non equivalenti, all’interno delle quali si
sono attivate filiere produttive non omologabile le une con le altre. In questa prospettiva risulta
di primaria importanza per l’elaborazione di strategie di DCM una prima fase di analisi della
catena del valore distrettuale per identificare i soggetti strategici, le attività governate in modo
ottimale, i punti deboli, le attività di supporto indispensabili, etc…
Può allora risultare utile una classificazione dei distretti industriali in base alla diversa tipologia
organizzativa che contraddistingue non solo il tipo di filiera tecnica presidiata ma soprattutto la
distribuzione del potere di mercato delle componenti imprenditoriali interne. In prima
approssimazione si possono così individuare tre tipologie distrettuali:
DCM nei distretti di tipo A – Distretti indotto (una o due imprese rilevanti)
In questi distretti il potere di mercato di poche imprese leader è determinato dalla loro stretta
relazione con i circuiti distributivi e commerciali internazionali del settore.
Ne consegue un potere molto forte nei confronti dei propri fornitori, solitamente PMI distrettuali,
che determina una organizzazione piramidale della supply chain.
La struttura gerarchica della filiera permette un SCM di tipo tradizionale, con investimenti in
infrastrutture e sistemi informatici tipici delle catene di natura fordista o neofordista. Si può
rilevare da queste prime osservazioni quanto la struttura logistica di un distretto sia determinata
dalla sua organizzazione commerciale e dai suoi canali di mercato.
Il caso "Divani & Divani" (Gruppo Natuzzi) nel Distretto del mobile imbottito nelle Murgie è
emblematico. Natuzzi in quell’area decide i rapporti del distretto con i maggiori partner logistici,
perché è Natuzzi a detenere in modo esclusivo i rapporti con i buyer internazionali. Quindi sarà
il suo gruppo a sviluppare le strategie di DCM con l’operatore ferroviario (Trenitalia Cargo) e
con le infrastrutture intermodali di riferimento dell’area (Interporto di Nola, Porto di Gioia Tauro,
etc…). Le scelte di Natuzzi ricadono poi su tutte le altre imprese del distretto che comunque
possono usufruire delle economie dimensionali che il gruppo Natuzzi riesce a sviluppare.
Si può ovviamente discutere a lungo se in casi come questi si possa parlare di district logistics e
non di SCM tradizionale. In ogni caso non è comunque questo l’unico caso di organizzazione
logistica di filiera che, pur partendo da una base territoriale, viene di fatto gestita da una
impresa leader. In realtà, va anche considerato il fatto che nel ciclo di vita di maturazione
distrettuale, questa è una fase che molti distretti hanno vissuto agli inizi. In molti casi i distretti
industriali sono nati all’ombra dell’attività di una grande impresa, che successivamente è stata
affiancata da altre sviluppatesi in loco o da altre grandi trasferitesi nell’area per sfruttare
economie esterne di tipo localizzativo. Anche dal punto di vista logistico si può ipotizzare
l’esistenza di un ciclo di apprendimento che può nel tempo portare a soluzioni più aperte, come
sono quelle di un distretto tipo B.
DCM nei distretti di tipo B – Distretti concorrenziali (decine di imprese capofila con pari potere
commerciale)
In queste aree le imprese commercialmente rilevanti (capofila) sono in forte concorrenza tra loro
e nessuna riesce ad essere leader assoluta rispetto alle altre.
Ogni impresa capofila sviluppa una propria supply chain, che ha rapporti continui con le
imprese di fornitura del distretto nella fase a monte e con i diversi buyer internazionali in quella
a valle. Questi buyer sono molto spesso gli stessi per ogni impresa capofila, ma la forte
concorrenza commerciale non agevola integrazioni di tipo logistico.
In questi distretti risultano particolarmente evidenti le conseguenze derivanti dall’assioma 3 del
DCM (forte concorrenza). In questi distretti assume inoltre particolare rilevanza l’attività dei
cosiddetti trust interface distrettuali (interfacce della fiducia), la cui funzione è quella di
organizzare il gioco di squadra fra imprese che condividono comuni progetti di business e di
innovazione.
In altri termini, queste tipiche figure del district management permettono la
convergenza guidata degli interessi imprenditoriali verso la creazione di beni di club che
altrimenti sarebbero poco considerati a causa delle elevate esternalità a cui danno luogo: come
la formazione, la cultura produttiva distrettuale, il marketing e la logistica distrettuale.
Il sistema produttivo di Montebelluna è un tipico esempio di questa tipologia di distretti.
In
quest’area – che detiene la leadership mondiale nella produzione della calzatura sportiva ¹ – si
assiste ad una sostanziale mancanza di integrazione logistica dei flussi delle imprese maggiori.
I canali commerciali sono di fatto gli stessi per tutte le imprese ma ogni leader preferisce
affrontarli in modo individuale, pagando costi logistico-distributivi pesanti (depositi e trasporti in
primo luogo), pur di non condividere informazioni strategiche con i propri concorrenti.
Il problema più forte rimane quello della completa sudditanza commerciale e logistica nei
confronti dei grandi gruppi commerciali mondiali, definita da Sergio Bologna "subalternità
logistica dei distretti": a fronte di un mancato consolidamento dei flussi logistici in area
distrettuale, si determina l’imposizione al sistema logistico del distretto di specifici standard –
dalla gestione informativa ai linguaggi dei codici a barre, dai propri lead time ² agli imballaggi –
che vengono così definiti dall’esterno dai singoli buyer oppure dai principali fornitori di materie
prime.
Molto si è discusso a Montebelluna di progetti per infrastrutture logistiche ³ . Alcune società di
consulenza hanno anche sviluppato progetti per infrastrutture logistiche comuni, come un
interporto di distretto, ma la realizzazione di tali interventi non è mai concretamente partita. Ciò
non significa che nel frattempo alcune iniziative di razionalizzazione logistica non abbiano avuto
seguito. Infatti, un’analisi più approfondita rivela due fenomeni che sono sintomatici del modo di
agire di un distretto di tipo B nell’organizzazione della propria catena logistica.
Fino a questo punto abbiamo rilevato l’idiosincrasia degli imprenditori di questo tipo di distretti
verso la condivisione dei flussi logistici, in quanto tale azione comporterebbe una perdita di
asimmetrie informative ritenuta pericolosa per la propria competitività. In realtà, questa
integrazione dei flussi è stata realizzata da alcuni "intermediari logistici" con partner
extradistrettuali che avevano i medesimi canali distributivi e produzioni integrabili con quelle
della propria impresa (es: integrazione della logistica distributiva per il mercato italiano di
produttori di scarponi da sci del distretto, con produttori di attacchi austriaci e di sci tedeschi).
Si deve però riflettere anche sul fatto che la razionalizzazione dei flussi è comunque un compito
che spetta ad un intermediario, ad un soggetto neutro rispetto all’arena competitiva del distretto:
il provider di servizi logistici distrettuale può appunto svolgere questa funzione.
Se proseguiamo la riflessione ci rendiamo conto che forse è proprio la mancanza all’interno dei
distretti di questi intermediari logistici, di questi prestatori specializzati di servizi a determinare
una presunta immaturità logistica delle imprese. In altre parole, si potrebbe affermare che non è
compito delle imprese integrare i flussi, ma di coloro che svolgono attività terziarie nel settore
logistico.
A questo punto non bisogna però sottovalutare la specificità dei servizi logistici distrettuali, in
quanto si trovano anch’essi a venire offerti in un ambiente ostile alla condivisione esplicita. Tale
ostilità nasce sia da carenze di tipo culturale (ma che, come abbiamo visto, ha anche un suo
lato positivo) sia più direttamente di tipo economico. Una delle principali lacune rilevate nelle
imprese del distretto (rimanendo sempre a Montebelluna) è l’assoluta mancanza di analisi dei
costi relativi alle varie attività aziendali, tra cui la logistica.
In una recente analisi in cui è stata
rilevato la situazione logistica del distretto industriale di Montebelluna4 , circa il 70% delle
imprese intervistate non calcolava i costi di quest’attività aziendale (non aveva, in altri termini,
una contabilità industriale che rilevasse i costi logistici).
E’ facile intuire come la mancanza di una contabilità industriale determini l’assoluta impossibilità
di valutare i vantaggi di una terziarizzazione dell’attività logistica. Ciò che allora è carente in
distretti di questo tipo non è tanto la dotazione infrastrutturale bensì due elementi ancora più a
monte:
DCM nei distretti di tipo C – Distretti polverizzati (presenza di una pluralità di piccole imprese di
dimensione equivalente)
La caratteristica di questa terza tipologia di distretti è quella di una produzione ancora legata a
beni di tipo tradizionale a forte contenuto di lavoro manifatturiero, e che trovano nella qualità
artigianale una fonte difficilmente sostituibile di vantaggio competitivo sui mercati mondiali
(esempi di questo tipo sono il distretto del marmo della Valpolicella, distretto del mobile antico
della Bassa veronese, il distretto delle calzature femminili di lusso della Riviera del Brenta).
In questi distretti sono dunque localizzate imprese non industrialmente organizzate, di piccole
dimensioni e con sistemi di divisione tecnica e sociale del lavoro diversi rispetto alle realtà viste
in precedenza. Il mercato è qui molto frammentato e poco organizzato, ed in questo senso la
polverizzazione imprenditoriale del distretto aiuta le imprese ad attività di monitoraggio e
presidio commerciale che altre tipologie organizzative non riuscirebbero a svolgere in modo
altrettanto efficiente.
Questa continua varietà e variabilità del mercato e la sua costante ricerca di prodotto dalle
caratteristiche artigianali non permettono una facile crescita dimensionale delle componenti
imprenditoriali di questa tipologia di distretti. Non esiste perciò una leadership commerciale ben
definita di alcune imprese sulle altre.
Le imprese nel contempo si rendono conto che il proprio vantaggio competitivo sta nella
frammentazione produttiva, ma sentono il bisogno di integrazione per sviluppare alcune attività
di servizi qualificati che in altri ambiti distrettuali è svolta all’interno di supply chain
modernamente e tecnologicamente organizzate da imprese leader di rilevanti dimensioni.
In questi casi può svilupparsi una spontanea ricerca verso forme associative e di integrazione di
servizi comuni, che può porta a iniziative pregevoli nelle attività sia commerciali e di marketing
sia di logistica distrettuale.
Un esempio in questo senso è il distretto del marmo della Valpolicella in provincia di Verona. In
questo distretto non esiste una leadership commerciale di un’impresa sulle altre (alcune realtà
sono più strutturate ed organizzate di altre, ma sempre in limiti dimensionali accettabili) e
questo spiega perché il gioco di squadra, anche se a volte inconsapevole, risulti molto forte.
Le
imprese di questo distretto hanno creato una fiera distrettuale delle tecnologie legate alla
estrazione e lavorazione del marmo di valore mondiale (oggi trasferitasi nel quartiere fieristico di
Verona), una scuola professionale (nata su iniziativa di un nobile locale nell’800, ma oggi
sostenuta dalla totalità delle imprese distrettuali), un terminal ferroviario per la gestione
dell’intermodalità dei traffici logistici in entrata ed in uscita dal distretto e da pochi mesi una
videomarmoteca ed un laboratorio di certificazione della qualità della propria produzione.
L’habitat del distretto polverizzato favorisce più che negli altri casi la formazione di strategie
comuni fra imprese, proprio perché risulta a tutti più evidente l’impossibilità di procedere
individualmente – a causa dei problemi di economia di scala – nella realizzazione di servizi e
infrastrutture di cui ogni impresa ha di fatto bisogno.
Infatti, laddove questi bisogni comuni non
vengono riconosciuti – basti pensare all’organizzazione o alla partecipazione a di fiere di
settore, all’utilizzo di servizi di prova e certificazione, alla creazione di servizi e attrezzature
logistiche – questa tipologia distrettuale rischia più delle altre di vedere erodere
progressivamente le proprie quote di mercato, portando ad una fase di declino difficilmente
reversibile, almeno per le imprese specializzate nella filiera originaria.
Emblematico a tale
proposito è il caso del distretto della calzatura maschile di lusso di Vigevano, che ha saputo
mantenere una propria base produttiva solo sostituendo l’originaria specializzazione con
produzione di macchinari per il calzaturiero.
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